Università Cattolica del Sacro Cuore

Un pomeriggio dedicato all’Opera di Pechino a Milano - - Isabella Garofali, Pubblicato in AsiaTeatro, Anno VI (2016)

 17 febbraio 2016

Lo scorso lunedì 25 gennaio ho avuto l’occasione di partecipare ad uno stage sull’opera di Pechino presso l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica di Milano. Da appassionata, benché ultimamente poco attiva nella musica sempre a causa dei miei continui impegni scolastici che non mi lasciano ormai ben poco tempo libero, ho quindi deciso di partecipare. Si preannunciava qualcosa di insolito, ma non mi sarei mai aspettata una presentazione dettagliata di strumenti musicali. Questa è avvenuta mediante piccole performance che hanno permesso anche ai neofiti di comprendere di più della musica presente nel teatro d’opera la quale, come nel nostro teatro, è sempre e soprattutto un teatro musicale. 

Si è trattata quindi di una piacevolissima sorpresa poter entrare a contatto con maggiori dettagli ed ascoltare dal vivo gli strumenti e la tecnica vocale dell’opera di Pechino, senza microfoni ed amplificatori, senza trucchi insomma.

Il pubblico, piuttosto numeroso, ha seguito tutte le varie performance con molta attenzione, cercando, ove possibile, di porre domande interessate specie sui diversi strumenti presentati.

L’Opera di Pechino è stata presentata nei suoi vari aspetti dalla Shanghai Theatre Academy, prima con un’accurata introduzione storica, con un’analisi dettagliata dei costumi e delle maschere, della loro simbologia, fino ad arrivare alla presentazione dei singoli strumenti musicali, non tutti però presenti nelle performance dell’opera di Pechino, in quanto spesso hanno una maggiore varietà. Effettivamente le orchestre che accompagnano le arie dell’Opera di Pechino, hanno una maggiore varietà di strumenti, soprattutto delle percussioni. Queste, come fu peraltro sottolineato dai musicisti di Shanghai, occupano una parte importantissima nell’Opera, in quanto regolano il tempo non solo nelle parti cantate, ma anche in tutto il resto del recitato, delle danze e delle acrobazie. Tale principio della notevole importanza della musica e del ritmo non si discosta molto dalla concezione della nostrana opera lirica, se non per una non esclusiva dipendenza dalle percussioni, peraltro motivata da una maggiore staticità dei cantanti sulla scena.

Dall’uso delle percussioni vi è un’altra notevole differenza con il nostro teatro: il canto.

Come presentato dall’artista della Shanghai Theatre Academy, l’emissione è sicuramente in maschera, i suoni sono chiari, puliti, ma sottili, con poco sostegno. La mancanza di sostegno però non rende giustizia alla voce che risulta meno sfruttata, nel senso che i risonatori non vengono impiegati in tutte le loro potenzialità, rendendo la voce meno corposa e ricca di quello che effettivamente potrebbe essere. Il risultato potrebbe sembrare deludente, ma essendo riferito al Teatro d’Opera di Pechino, è funzionale al giusto equilibrio con l’orchestra che comunque si presenta di pochi elementi e non posta davanti ai cantanti, come avviene nella musica occidentale, nella fossa orchestrale. Non a caso questa impostazione di voce è funzionale al tipo di opera. Un cantante lirico occidentale, invece, risulterebbe completamente fuori luogo per timbro e emissione, coprendo in maniera non necessaria e deleteria l’orchestra.

Un altro punto preso in considerazione è stata la formazione dei cantanti che avviene, contrariamente a quanto avviene in Italia, a partire dai 13 anni, quando per ragioni di igiene non viene consigliato l’inizio dello studio del canto lirico prima dei 16 anni per le ragazze e prima dei 17-18 anni per i ragazzi. Sicuramente le ragioni si spiegano nel minor impatto della tecnica sull’apparato vocale che, nel caso del teatro lirico nostrano, potrebbe compromettere l’impostazione stessa, rischiando di rovinare la futura carriera del cantante nel caso di una forzatura di esercizio su un corpo ancora in formazione. 

Per quanto riguarda gli strumenti presentati abbiamo visto degli strumenti a corda, della famiglia degli huqin 胡琴, un erhu 二胡un violino verticale a due corde con una piccola cassa di risonanza, con una sua variante dal suono più cupo e dall’estensione più grave, una sorta di viola, il zhonghu 中胡.  E’ stato poi brevemente presentato il suona 唢呐, uno strumento simile all’oboe, ma spesso dal corpo di metallo, con la caratteristica comune di avere la doppia ancia, che dona  particolare timbro allo strumento. La differenza di materiale influisce poco con il suono, non quanto la sua forma. Tale strumento, come tutti gli altri e perfino come il canto, ha un’origine rituale e veniva utilizzato principalmente per funerali e processioni, essendo maneggevole e pratico da suonare anche in movimento. L’ultimo strumento è stato il Pipa 琵琶, con un breve saggio di un maestro che ha presentato un classico del repertorio tradizionale cinese “L’agguato” 十面埋伏, raccontandoci poi la storia e l’evoluzione stessa dello strumento musicale in cui la successione dei radicali ripetuti in alto 王 del carattere dello strumento non rappresentano niente altro che la tastiera, piuttosto fitta, talvolta ben in evidenza specie sul manico. Chiaramente la parte in basso dei caratteri di 琵琶 rappresenta la componente fonetica del carattere che quindi risulta prevalentemente interpretabile come un composto fono-semantico (形声), anche se una parte più che rappresentare il significato è la raffigurazione dell’oggetto stesso. Successivamente l’attenzione si è spostata sull’evoluzione della notazione musicale, da quella tradizionale fino a quella attualmente utilizzata, numerica, che si discosta anche da quella occidentale classica.

Chiaramente tale performance ha potuto darci un’idea di ciò che effettivamente è l’Opera di Pechino, sperando in futuro di poter di fruire di altre occasioni di ascolto, che ci rendano più vicino un genere a noi spesso troppo distante e di difficile comprensione.